“Sono sceso alla radice del male”

Eugenio CortiEugenio Corti ha appena festeggiato ottant’anni. Qualche anno fa un sondaggio tra i lettori di Avvenire lo aveva indicato come il più amato fra gli scrittori cattolici viventi. Lo scorso ottobre una giuria presieduta dal sociologo Gianfranco Morra gli conferiva il premio internazionale “Medaglia d’oro al merito della cultura cattolica”: un riconoscimento che era andato in passato, fra gli altri a filosofi come Adriano Bausola e Augusto del Noce, ai cardinali Joseph Ratzinger e Giacomo Biffi, e al fondatore di Comunione e Liberazione don Luigi Giussani.

“In un panorama letterario – recita la motivazione – caratterizzato da evasività di temi e da sterili sperimentalismi linguistici, Corti ha saputo affrontare con le risorse dell’arte i grandi problemi dell’esistenza secondo una visione profondamente cristiana perché profondamente umana”.

Con il suo tratto da cavaliere d’altri tempi, la figura robusta appena segnata dall’età, lo scrittore riceve i visitatori nella sua casa di Besana in Brianza. Il sapido accento lombardo, il volto austero e virile disegnano il ritratto di un uomo risoluto e intransigente nei principi, ma fanno intravedere in lui anche una serenità d’animo frutto della comprensione degli uomini e della vita.

Corti sa bene che la Brianza di oggi non è più la terra dei “paolotti”, di quella società di cattolici coerenti e devoti che aveva tratteggiato con non celata nostalgia all’inizio del suo romanzo più famoso, Il cavallo rosso. Sono passati sessant’anni da allora, e sembrano secoli. Una granda cultura popolare pervadeva quella società ancora contadina che con pragmatismo tutto lombardo si stava aprendo all’industrializzazione.

“Era la cultura del Concilio di Trento – ricorda lo scrittore – e di san Carlo Borromeo. Spero con i miei libri di aver fermato nel tempo il ricordo di quel mondo. E di aver dato un contributo alla ricostruzione di una cultura cattolica genuina. Anche se i mutamenti sociali, culturali, di costume sono stati imponenti, penso non sia impossibile recuperare il terreno perduto”.

Undici anni di lavoro, 1.274 pagine, un affresco di oltre trent’anni di storia italiana: sono i dati esteriori de Il cavallo rosso. Che cosa l’ha convinto a portare a termine questa fatica in un panorama letterario povero di opere di questo impegno?
Avevo deciso che, giunto ai 50 anni, mi sarei dedicato interamente alla letteratura e che Il cavallo rosso sarebbe stato il lavoro fondamentale della mia vita. Mi ero proposto di rendere tutta la realtà dell’uomo nel nostro tempo, ma non solo per individuare i mali del mondo e sollecitare la ribellione contro le ingiustizie. Avrei voluto indagare in profondità anche il significato della vita.

Negli anni della guerra avevo visto e vissuto – prima in Russia e poi anche in Italia – il prodotto degli idealismi che avevano illuso popoli interi, ma che erano in realtà portatori di frutti di morte: il nazismo e il comunismo. E avevo capito che la scuola e la stampa nazionale erano condizionate da una cultura di stampo illuminista che non avrebbe mai potuto opporvisi validamente.

Ho pensato allora che dovevo crearmi, cercando tra le voci positive della modernità, una base di conoscenza libera da questa cultura. Ho scoperto la filosofia di Cornelio Fabro e di Augusto del Noce, e ho studiato a fondo questi autori, e tanti altri: teologi, sociologi e letterati. Ecco perché ci ho messo undici anni a scrivere Il cavallo rosso: altrimenti penso che quattro o cinque anni sarebbero bastati. Ho dovuto poi fare molte “prove” per vedere se la scrittura del romanzo poteva funzionare così come l’avevo in mente io.

I suoi libri contengono una condanna senz’appello di tutte le ideologie alla base delle tragedie del XX secolo, nelle quali lei vede radici che affondano in profondità nella cultura occidentale. Dove esattamente?
Sono convinto che alla base di tutte ci sia un’unica matrice anti-cristiana, e che la sua origine vada cercata più a monte dell’Illuminismo francese, dei philosophes e di Voltaire. Già il rinascimento fa segnare un risveglio del paganesimo. Procedendo a grandi tappe ho visto l’avanzare di una linea evolutiva che dall’Illuminismo – attraverso Kant – ha condotto all’idealismo tedesco e al sistema di Hegel. E’ dentro questa cultura che hanno preso le mosse sia Feuerbach che Nietzsche, che su sponde diverse ne rappresentavano i frutti.

L’uno teorizzava l’ateismo, l’altro nientemeno che la morte di Dio. A questo punto s’era perduto anche il senso delle proporzioni. Su un piccolo pianeta, pulviscolo di una galassia che sta alla periferia di un universo di miliardi di galassie, un piccolo uomo poteva proclamare che Dio è morto!

Nel ‘900 questo pensiero è uscito dai libri e s’è incarnato nella storia: e abbiamo avuto il nazismo e il comunismo, che hanno prodotto milioni di morti ciascuno. Anche lo spazio intermedio occupato dalla cultura laica si è progressivamente ridotto. La cosa più grave è però che questo pensiero è penetrato anche all’interno del mondo cristiano. Spesso in buona fede.

Lei ha dedicato alcuni studi alla crisi della cultura cattolica. A quali “infiltrazioni” si riferisce?
La più grossa sciocchezza che hanno fatto i cristiani nel ‘900 è stata a mio avviso quella di aver seguito gli indirizzi di Jacuqes Maritain, un filosofo che proveniva dal socialismo rivoluzionario, s’era convertito ancor giovane ed era la figura di spicco della grande cultura cattolica francese tra la due guerre.

All’inizio Maritain s’era mosso molto bene, operando un recupero alla modernità di san Tommaso del quale tutti gli siamo debitori. Con Umanesimo integrale ha però imboccato una strada sbagliata. Nel libro sosteneva – ed è vero – che anche tra le idee dei pensatori anticristiani c’erano delle verità, delle virtù, dei valori ristiani “impazziti”. Il compito dei cattolici sarebbe stato quello di riconoscerli e coltivarli.

Qual è stato secondo me l’errore di Maritain? Aver pensato a un certo punto di poter facilmente incorporare il pensiero anticristiano nella futura, nuova Cristianità: che insomma “anche i comunisti e Voltaire erano nostri”.

In Italia le idee di Maritain e dei suoi seguaci hanno avuto grande seguito, ma è accaduto esattamente il contrario di quello che forse s’aspettavano. In politica i risultati sono stati negativi, ma ancora peggio sono stati i frutti nella Chiesa. Il numero dei seminaristi s’è dimezzato di colpo, i preti hanno cominciato a lasciare, i Gesuiti da 36 mila si sono ridotti a 10 mila di meno, metà dei Domenicani sono andati via; l’Azione Cattolica è scesa da 3 milioni e mezzo a 600 mila iscritti.

Le idee di Maritain hanno però continuato ad avere sostenitori molto influenti. Penso che Paolo VI si riferisse a loro quando confessava al filosofo Jean Guitton di avere l’impressione che all’interno del cattolicesimo predominasse talvolta un pensiero di tipo non cattolico.

Torniamo alla letteratura. Come si presenta oggi la situazione italiana e quali sono state a suo parere le voci più significative del secolo?
Il diffondersi delle idee a cui accennavo ha portato a un esito nichilista anche in letteratura, e in tutto l’Occidente. Possiamo convenire che gli scrittori della seconda parte del ‘900 scrivono senz’altro meglio dei loro colleghi dell’800. E tuttavia, mentre quelli lasciavano opere che sono rimaste, questi hanno scritto libri sempre più vicini al niente. Anche nel ‘900 italiano ci sono stati autori validi; ma secondo me l’ultima figura positiva è stata quella di Riccardo Bacchelli. Dopo di lui sono venuti autori – si può pensare a Calvino, Moravia, Sciascia – di livello sempre più basso; finché si è giunti a personaggi come Umberto Eco, che secondo me rappresentano assolutamente il niente. Lo ammettono anche i retori della cultura dominante: lo ammette Carlo Bo quando si chiede perché mai scrivano, visto che non hanno nulla da dire.

In Calvino e in Sciascia il nichilismo era incipiente, e cominciava a porre dei veri e propri “blocchi” alla loro creatività. Più tardi ha fatto presa in un numero così grande di autori che non saprei nemmeno ricordarli tutti. Quello di Umberto Eco è un fenomeno diverso. Da professore di semiotica scriveva opere in cui diceva pressapoco: guardate come si può ingannare la gente attraverso procedimenti letterari. All’inizio sembrava esporli ai lettori come per metterli in guardia. Po si è reso conto che poteva davvero condizionare il modo di pensare, e si è buttato a corpo morto in quegli stessi artifici che prima condannava.

Vedo la letteratura italiana come un grande albero rigoglioso, che a un certo punto però s’è ammalato e che nella seconda metà del ‘900 presentava già tutta la parte alta intaccata. Qualcuno doveva scendere lungo il tronco fino al tessuto sano.

Molto del fascino dei suoi libri si deve alla presenza di un piano soprannaturale che oltrepassa le storie spesso tragiche dei personaggi, ma che in qualche modo anche le accoglie.
Uno studioso protestante, Jean Marc Berthoud, ha scritto che il personaggio principale de Il cavallo rosso è il Dio cristiano: ed è vero.

Quanto alla presenza del male nella storia, resta il fatto che siamo figli di Dio. Lui ci ha riscattato, e quindi alla fine anche dal male Dio tira fuori il bene. Alla radice del male c’è qualcosa che dipende dall’uomo, e che a poco a poco si accumula, finché a un certo punto si muove come una valanga e, nonostante i nostri sforzi in contrario, ci trascina. Anche la guerra viene da una rottura dell’equilibrio dell’ordine morale.

E’ il prodotto – né più né meno – dell’immoralità umana.

(A. Pesenti Palvis, L’Eco di Bergamo, 25/02/2001)